Giacomo Mameli e i suoi ottant'anni: "Se potessi tornerei al giornalismo di una volta" - LinkOristano
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Giacomo Mameli e i suoi ottant’anni: “Se potessi tornerei al giornalismo di una volta”

Dalle colonne dei quotidiani alla televisione e ora i libri

Giacomo Mameli

Giacomo Mameli e i suoi ottant’anni: “Se potessi tornerei al giornalismo di una volta”
Dalle colonne dei quotidiani alla televisione e ora i libri

Giacomo Mameli

di Marcello Atzeni

Compie, oggi, ottant’anni, Giacomo Mameli, uno dei più affermati giornalisti sardi, tra i pochi ad essere noto anche oltre mare. Protagonista nella carta stampata e nella televisione,  più di recente si è affermato come scrittore con alcuni libri di successo: La ghianda è una ciliegia, Le ragazze sono partite, Hotel Nord America.

In lui è sempre vivo  lo spirito dell’instancabile cronista, quella sensibilità che gli ha permesso e gli permette di raccontare con efficacia e introspezione storie e personaggi della Sardegna, ma non solo.

“Ieri”, racconta Giacomo Mameli, “il giornalismo era fatto con le scarpe, nel senso che dovevi andare a fare le interviste a questa o a quell’altra persona, faccia a faccia. C’era tutta la bellezza del contatto diretto, dell’umanità, dell’empatia. Le interviste di una volta rendevano di più”.

“Il giornalismo di oggi è fatto con la tecnologia. In tempi recenti, giusto per fare qualche nome, attraverso il video, ho parlato con Walter Veltroni, Massimo Cacciari e Sandro Veronesi. È un giornalismo che mi piace meno, ma pur sempre valido”.

“Se potessi”, afferma ancora Giacomo Mameli, “tornerei indietro di tanti anni, quando, appunto si lavorava con le scarpe, e i capiservizio e anche i direttori non conoscevano una sola parola di una lingua straniera. Prima c’era più mestiere e meno professionalità. Oggi la tecnologia aiuta, tutti partiamo da Wikipedia e poi sviluppiamo le ricerche. Ricordo Giambattista Vicari, che mi mandò al mercato di Urbino per parlare con le signore che vendevano le galline”.

Qual è stata l’intervista più sofferta che abbia realizzato?
“Sono almeno due. La prima a Paola Pina Monni di Orune, dieci-dodici anni fa. Parlava una donna alla quale erano stati ammazzati il fidanzato e l’amico. L’unica tra i presenti a rivelare agli inquirenti quello che aveva visto. Ruppe gli schemi. La sofferenza di quell’incontro è pari a quello con Eva Cannas di Mamoiada. A lei, nel giro di due anni, vennero ammazzati i fratelli. Sapeva i nomi degli assassini e li perdonò. Insomma decise di non alimentare la faida. Sono due donne che meriterebbero il premio Nobel”.

Ma in archivio si leggono anche le sue interviste a Gorbiaciov e ad Arafat.
“Era il 1984, in occasione della morte di Enrico Berlinguer, ebbi a che fare con i due politici a livello mondiale. Di Gorbaciov ricordiamo la glasnost, cioè la trasparenza. Arafat è un discorso assai diverso. Già allora avevo la tessera dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndc), tessera che ancora conservo nel portafoglio.”

Negli anni novanta, anche l’esperienza come addetto stampa del ministro degli esteri, il socialista di Venezia Gianni De Michelis. Un bel salto.
“In quegli anni ho conosciuto il mondo. Ho pranzato assieme a Bush. In un’altra occasione, in Cambogia, sono stato ospite di Sihanouk, che di quella nazione è stato il re per tantissimi anni. Sono veramente molti i miei ricordi. Quando Papa Woityla venne in Sardegna, io ero tra quelli presenti nella miniera di Monteponi, al pozzo Amsicora. Feci un paio di domande al pontefice, sapevo già che non mi avrebbe risposto. Però andando via, tornando verso la sua camionetta, disse: “Apprezzo e ammiro molto i minatori, che riescono a vedere la luce anche laddove c’è il buio”.

Lei è anche uno scrittore di successo. Meglio fare il giornalista o scrivere libri?
“Sono due attività che mi piacciono entrambe e non vedo poi questa differenza. Scrivere un articolo è temporale, nel senso che c’è l’immediatezza della notizia, mentre i libri sono atemporali. Vanno sempre bene, anche dopo tantissimi anni. Nel giornalismo, volendo trovare una differenza, non ripeto un concetto, per ragioni di stile. Da Giulio Cesare in poi siamo tutti figli delle cinque W. Nel libro posso usare, per rinforzare il concetto, il pensiero, le stesse parole. In alcuni casi, sia chiaro, mica sempre”.

Giacomo Mameli oggi veste la giacca di velluto e spesso per le sue interviste parla in sardo. È sempre un sardista convinto? Quest’anno ricorre il centenario della nascita del Psd’Az.
“Io il centenario lo celebrerei nel 2048. Troppe cose sono cambiate. Mi piace ricordare Camillo Bellieni, conosciuto nella sua casa di Sassari, grande pensatore. Uomo di testa, più di Emilio Lussu, uomo di azione. Mi sento vicino a Bellieni. Il partito sardo di oggi, lo sanno tutti, è molto diverso. Troppe cose sono cambiate”.

Di recente ha lasciato Cagliari per tornare al paese d’origine, Perdasdefogu, il suo Foghesu, al quale è sempre rimasto molto legato. Perché questa decisione?
“Si parla sempre di spopolamento delle zone interne. E allora mi sono chiesto: ma tu, Giacomo, cosa fai di concreto? Così, dopo tanti anni a Cagliari, sono tornato con mia moglie a Foghesu. Da qui sento i rintocchi delle campane della chiesa. Qui sono nato e qui sono voluto rientrare”.

Qui fra poco Giacomo Mameli comincerà a scrivere il suo nuovo libro. È un collezionista di storie e volti. Nelle sue pagine abiteranno i ricordi. Che poi, ospiteremo anche nelle nostre case.

Dio ti conservi Giacomo Mameli di Foghesu, così come Garcia Marquez faceva dire a Pilar Ternera, in “Cent’anni di solitudine”, alle persone a cui voleva bene.

Mercoledì, 17 marzo 2021

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