Il Comitato alla salute avverte l'Asl di Oristano: "No a progetti di nuove scatole vuote" - LinkOristano
Sanità

Il Comitato alla salute avverte l’Asl di Oristano: “No a progetti di nuove scatole vuote”

Intervento con valutazioni e proposte

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Uno dei cartelloni affissi dal Comitato in una delle innumerevoli manifestazioni per il diritto alla salute

Oristano

Intervento con valutazioni e proposte

Dal Comitato per il diritto alla salute della provincia di Oristano riceviamo e pubblichiamo.

Apprendiamo che anche la ASL di Oristano ha predisposto l’atto aziendale dando seguito agli indirizzi stabiliti con la delibera regionale del 30 settembre scorso, atto da sottoporre alla Conferenza territoriale sociosanitaria come riformata con la Legge regionale n. 24 del 2020.

Come Comitato, siamo attenti ai bisogni dell’oggi, terribilmente disattesi, seppure teniamo lo sguardo al futuro, per intravedere la direzione che si vuole dare alla sanità pubblica, ahinoi oramai non più certezza.

Viviamo nell’incertezza e nel costante refrain sulla “mancanza di personale sanitario” di “qui i medici non ci vogliono venire” e poi ancora “i paesi si stanno spopolando occorre tenerne conto nella programmazione sanitaria”.

La Sardegna ha il più alto numero di laureati in medicina in rapporto alla popolazione. La domanda da porsi è: perché fuggono? Perché vanno verso le strutture private?  Perché le strutture private funzionano e il SSN no? Perché dagli errori passati, utilizzati per giustificare la disastrosa situazione, non si cerca di trarne degli insegnamenti? Sicuramente una ristrutturazione della sanità richiede tempo. Perciò perché ogni nuova giunta regionale propone un nuovo piano che, alla fine del mandato, verrà puntualmente disatteso?

Ecco, di fronte alle continue nenie che sovrastano ogni tentativo di discussione costruttiva e propositiva sulle vie percorribili per garantire al nostro territorio l’applicazione dell’Art. 32 della Costituzione, di fronte a tutto ciò ci chiediamo che senso abbia un atto aziendale basato su edifici (da costruire quando ne esistono già inutilizzati e chiusi), su reparti ospedalieri (sguarniti), su ospedali (a costante rischio chiusura) su case di comunità (dove le comunità stanno sparendo). C’è da porsi molte domande.

Se il personale non si trova (per la sanità pubblica, sia chiaro) come si erogheranno i servizi? Chi garantirà cure e assistenza ai nostri concittadini? Manca il numero, le specializzazioni e le modalità operative del personale sanitario. Quali azioni saranno messe in campo perché l’atto aziendale non sia solo una scatola vuota e dispendiosa?

In un articolo pubblicato dal “Quotidiano sanità”, a firma di Antonio Panti, viene fatta un’analisi attenta della situazione: “E, a proposito di territorio, al Congresso della SIMG, la Società Scientifica dei medici generali, il sottosegretario Gemmato ha detto che “le Case di Comunità non vanno a soddisfare l’esigenza di sanità territoriale di cui abbiamo bisogno”, confermando la bocciatura dei presidi previsti dal DM 77. “Le 1.350 Case di comunità insieme alle 605 Centrali Operative Territoriali previste dalla misura 6 del PNRR non rendono la sanità vicina ai cittadini: nelle aree interne, in quelle montane, in quelle disagiate si tradisce l’idea di una sanità di prossimità”. “pensiamo alla penuria di medici, chi lavorerà nelle Case di Comunità e come verranno finanziate quando finiranno i soldi del PNRR?”.

La soluzione è la rete dei medici di famiglia e delle farmacie “che sono già presenti sul territorio e sono strutturati e già nella disponibilità del Ssn”.

Le Case di Comunità non impediscono la sussistenza degli ambulatori periferici che garantiscono la medicina di prossimità mentre vi sono patologie, per lo più croniche, che esigono risposte assistenziali complesse, cioè di presidi territoriali organizzati sul piano strutturale e di personale, aperti h24.

Se l’assistenza territoriale si fonda sulla rete dei professionisti, lascia perplessi l’intreccio con le farmacie, idea già scartata nel primo dopoguerra dalle compiante Mutue per ovvie ragioni di conflitto di interesse. Altresì la medicina generale si può svolgere oggi soltanto in gruppi, le AFT, che garantiscono la copertura di un territorio secondo i moderni principi della medicina proattiva.

Il Sottosegretario ammette che, finiti i soldi del PNRR, non si possa garantire la sussistenza di quelle strutture che sono l’oggetto del piano stesso.

Una consolante prospettiva che sembra preannunciare una privatizzazione strisciante. Secondo Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, “la politica deve chiarire se è in grado di mantenere un servizio sanitario interamente pubblico, equo ed universalistico o se si vuol andare in una direzione diversa. Chi crede nella sanità come benessere della popolazione e come leva di sviluppo economico investe in questo settore invece di frammentare e sperperare risorse pubbliche in mance elettorali”.

I professionisti della sanità dovrebbero forzare il Governo a stabilire prioritariamente alcuni punti fondamentali.

Primo, il finanziamento cioè la garanzia che non si scenderà al di sotto della percentuale del PIL dei maggiori Stati europei, quale che sia il regime fiscale adottato; secondo, i limiti all’autonomia regionale in modo da garantire l’uguaglianza tra cittadini; terzo, il divieto di affidamento “chiavi in mano” al privato di settori del servizio, sostituendo il pubblico o distorcendone i vincoli programmatori; quarto, la definizione legislativa della governance professionale.

I professionisti della sanità debbono rendersi conto che,  se non si risolvono i problemi comuni entro pochissimo tempo, il SSN può trovarsi di fronte a difficoltà irrisolvibili: privatizzare, diminuire i LEA, andare in crisi di personale, frammentarsi in venti repubbliche.

Forse solo un’alleanza stretta con i cittadini potrebbe tentare il salvataggio della sanità pubblica. Intanto sono già state proclamate le prime agitazioni categoriali e questa è una buona notizia”.

Mercoledì, 30 novembre 2022

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