Nando Cossu, il narratore: storie e personaggi dal villaggio di Is Arrius, finestra sul mondo - LinkOristano
Cultura

Nando Cossu, il narratore: storie e personaggi dal villaggio di Is Arrius, finestra sul mondo

Da Gianpiero Enna un ricordo dello studioso di antropologia originario di Cabras, a un mese dalla scomparsa

Nando Cossu
Nando Cossu - Foto Oristano e Oltre

Cabras

Da Gianpiero Enna un ricordo dello studioso di antropologia, a un mese dalla scomparsa

Un mese fa, dopo averci lasciato, Nando Cossu,  è stato ricordato  per le sue estese ricerche sulla medicina popolare, i guaritori e le pratiche tradizionali di cura in Sardegna. Oltre che un apprezzato studioso di antropologia, Nando era anche un grande narratore. Scriveva tantissimo: racconti,  commedie in lingua sarda, in parte inediti.

Uno degli ultimi suoi libri, “Racconti  di terra e laguna”, edito da Delfino, contiene una serie di racconti ambientati in Is Arrius, un villaggio, distante un chilometro dal mare, di circa “trecento  anime di povera gente, che aveva sviluppato  capacità eccezionali nell’arte di inventarsi la vita giorno per giorno, senza mai piangere sulla propria sorte”. Il nostro autore porta alla luce  personaggi, situazioni, storie di un mondo circoscritto e limitato entro determinati confini, facendoli diventare universali.

Don Serafino e la Repubblica, Franz, Giuditta, Il tesoro di Eufrasia, La mano di Dio, Uomini d’acqua, Zappuitu, sono tutti racconti di un mondo  in un periodo in cui l’arretratezza, la povertà e la fame erano considerate naturali, scontate, necessarie, non  determinate da rapporti di comando/sottomissione. C’era il dominio dei ricchi sui poveri, dei proprietari dei grandi latifondi sui giorranaderis; dei baroni delle lagune sui piscadoris. Quell’insieme di relazioni gerarchiche, umilianti, di comando/obbedienza, era  sostenuto da una rappresentazione culturale creata in nome di una modernità  conosciuta e riconosciuta dai dominanti come dai dominati. 

Gente ospitale, tranquilla, tanto da diventare amica,  durante l’occupazione dei nazisti nella seconda guerra mondiale, di un tedesco, Franz, dividendo con lui un spizzueddu ‘e pani. Gli abitanti di Is Arrius  “superano i ristretti confini del territorio, per porsi nel contesto più ampio dell’umanità che agisce  nel bene e nel male”, recita l’ultima di copertina del suo libro.

Dentro i domittedas bascias ‘e ladrini, casette basse di mattoni crudi, Nando Cossu ne ascoltava le voci,  i desideri, le preoccupazioni. Bombaroli, palamitaius, candidati sindaci, uomini, donne, bambini, alle prese con i problemi quotidiani: lavoro, festeggiamenti, malattie, lutti, matrimoni, nascite.  Lo studioso di Cabras  annoda  le loro  vite marginali  con  i grandi e  antitetici temi che da sempre hanno riguardato l’umanità: tradizione-innovazione; ingratitudine-riconoscenza; fede-superstizione; speranza-delusione; fantasia-realtà.

“Era il tempo che la gente, anche a Is Arrius, cominciava a parlare sempre più spesso di libertà”, scrive, “…. non solo di quella di cui doveva godere un popolo intero nella determinazione del proprio destino, ma anche di quell’altra libertà, apparentemente meno significativa, per cui ciascun individuo aveva diritto di scegliere a proprio piacimento il compagno o la compagna di vita”.  Così avviene per Giuditta, “povera come la nuda terra” che sposa un ricco possidente, Giovanni, innamorato della sua bellezza e gentilezza. 

Tra i personaggi femminili abbiamo ancora Eufrasia, sedicesima figlia di un bracciante smilzo e asciutto, di cui la gente diceva che possedesse s’impringiadori, “un sorta di strumento misterioso che aveva il potere di ingravidare infallibilmente le donne”; Giulia che  fin da piccola impara dalla nonna l’arte delle guaritrici: aggiusta le ossa, sana un foruncolo, cura le ustioni, fa sa meighina de s’oju, contro il malocchio. 

Nel racconto “Uomini d’acqua”, troviamo i bogheris (il cui nome deriva dalla parola bogare, che significa remare), una delle categorie disposte a scala in cui erano divisi i pescatori nel sistema di  antichissimi privilegi feudali,  perpetuatisi  nel corso  dei secoli,  in forme sempre più anacronistiche, fino agli anni settanta del Novecento. I bogheris avevano due padroni: il tempo e i baroni della laguna. Quando il maestrale sferzava lo stagno con le sue potenti raffiche, non potevano “entrare a pescare”. Uno di loro, Vincenzo, è angosciato per il mancato guadagno  e per non aver potuto fare neanche una giornata in campagna; rivolgendosi alla moglie preoccupata per i cinque figli da sfamare afferma: “Noi i figli li abbiamo voluti quando ormai li avevamo, ci sono arrivati come tutte le cose che per abitudine sappiamo che arrivano, come il vento, come la pioggia, come la fatica”.  

Conclude la serie di racconti, Zappuittu, uno smarginato che  desidera  avere un rapporto con una donna. Ma le porte del bordello, dove era stato una volta e che lui aveva scambiato per quelle del paradiso, furono chiuse e per questo precipitò nuovamente in condizioni di povertà, ma non di miseria morale. 

Bonarino è con la moglie  Arraffiella e la figlia Giuannica,  protagonista della commedia inedita in tre atti, Sa penzioni.  La sua esistenza si muove tra le dure privazioni della miseria e la speranza in una pensione “miracolosa”. Nella commedia  i personaggi si esprimono attraverso l’unico e più importante strumento che posseggono: la lingua sarda campidanese, o forse sarebbe meglio dire crabarese.  Importante non solo perché traduce i loro pensieri in parole, ma anche perché porta alla luce  i  processi  mentali attraverso  i quali  organizzano, in varie forme, l’ esperienza di vita quotidiana,  il modo di relazionarsi con gli altri e di abitare il loro piccolo mondo. 

Nando avrebbe voluto  soffermarsi ancora a lungo ad ascoltare le storie  degli abitanti de Is Arrius, con quella  commozione  che solo chi è nato e vissuto in quel territorio, può provare; ci lascia in  eredità il ricordo  di un mondo scomparso, così simile a tanti altri piccoli paesi del campidano, con la loro lingua e coi loro  tentativi di avvicinamento ad  una modernità immaginata.

Nell’ultimo periodo scriveva tantissimo in lingua sarda. Scrivere in sardo non era per lui un atto salvifico né si sentiva meno  sardo quando  scriveva in italiano,  più semplicemente  riteneva che la lingua sarda  come tutte le lingue,  fosse il mezzo di cui si servivano i Sardi per  nominare le cose, dire e pensare il mondo, ma anche per fare il mondo.  C’è uno stretto legame  tra il dire, il pensare e  fare il mondo. Quando uno di questi termini viene a mancare,  come è avvenuto per la lingua sarda, prima svilita e poi abbandonata, cosa accade? 

Avremmo avuto ancora bisogno di lui per trovare la risposta e demolire quell’idea che abita dentro la nostra Isola, che ha portato generazioni e generazioni di Sardi  ad abbandonare la loro lingua, a considerarsi  arretrati, marginali, a ritenere di non essere in grado di farcela da soli e ad avere sempre bisogno di aiuto, di assistenza da parte dello Stato, incapaci di crescere in autonomia, prosperità e libertà. 

Gianpiero Enna

Martedì, 9 agosto 2022

Più informazioni
commenta